I cambiamenti climatici sono la principale sfida della nostra epoca. Non è solo una sfida ecologica, ma è soprattutto una sfida sociale. La posta gioco non è solo la sopravvivenza degli orsi polari – come forse ancora pensa qualcuno – ma il nostro stile di vita, il nostro benessere, la nostra economia.
La scienza ormai è chiara sulle cause dei cambiamenti climatici e sulle possibili strategie di mitigazione. La politica sta iniziando a rispondere, sebbene con ritardo. Nel 2015, a Parigi, tutti i paesi hanno solennemente riconosciuto la sfida climatica, ponendosi l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale entro due gradi a fine secolo, rispetto all’epoca pre-industriale. A tal fine, a livello globale sarà necessario raggiungere la “neutralità climatica” nella seconda metà di questo secolo. Il problema è che, finora, alle parole non sono seguiti i fatti. Ora l’Europa si è mossa con una delle iniziative politiche più dirompenti degli ultimi anni, il Green Deal. Anticipando il proprio obiettivo di neutralità climatica al 2050, l’Europa intende porsi in prima fila nella battaglia globale ai cambiamenti climatici.
In questo scenario, che ruolo giocano le foreste? Oltre a regolare il ciclo dell’acqua, ospitare l’80% della biodiversità terrestre, fornire legno, ricreazione e bellezza, le foreste sono essenziali nella sfida ai cambiamenti climatici. A livello globale la biosfera terrestre – soprattutto grazie alle foreste – assorbe ogni anno circa il 30% delle emissioni antropogeniche di anidride carbonica (CO2) attraverso la fotosintesi, per poi conservarla negli alberi e nel suolo. Proteggere queste “banche” di carbonio è una priorità.
Ma le foreste sono minacciate. La deforestazione rilascia rapidamente carbonio che la foresta aveva pazientemente accumulato: a livello globale questo processo avviene soprattutto in aree tropicali, solitamente attraverso incendi appiccati dall’uomo, ed è responsabile di circa il 13% delle emissioni antropogeniche di CO2. Ma la deforestazione tropicale distrugge anche un patrimonio unico di biodiversità, causa la perdita della fertilità dei suoli e, modificando i bilanci di energia ed acqua, causa un aumento delle temperature locali. L’effetto combinato di deforestazione e cambiamenti climatici può innescare un spirale micidiale: meno foreste, meno acqua traspirata dalle piante, meno pioggia e più caldo. Questo facilita incendi più estesi, e quindi ancora meno foreste. Molti studi sostengono che l’Amazzonia sia vicina ad un punto di non ritorno, e che di questo passo nel giro di pochi decenni potrebbe diventare simile ad una savana. Non dimentichiamo che la causa principale della deforestazione tropicale è le crescente richiesta di spazi per allevamenti e per colture (a uso animale come la soia, oppure palma da olio), guidata anche dai nostri consumi.
Deforestazione nell’isola del Borneo. Una piantagione di palma da olio occupa quello che precedentemente era un habitat in cui vivevano gli oranghi. Fonte: Ulet Ifansasti/Greenpeace
Occorre proteggere le foreste esistenti e ripristinare quelle degradate, puntando sulla loro maggiore resilienza ai cambiamenti climatici. La resilienza è un concetto chiave, perché gli ecosistemi saranno sempre più esposti agli incendi e ai danni da vento o da insetti. Si può cercare di rispondere con specie più adatte a sopportare forti venti o con tecniche di selvicoltura naturalistica, che cerca di assecondare le modalità di sviluppo naturali della foresta. E poi, nuovi boschi. In Italia l’area boschiva è raddoppiata nell’ultimo secolo – soprattutto grazie al naturale processo di espansione sugli ex terreni agricoli – e oggi copre oltre un terzo del territorio nazionale. A livello UE, l’obiettivo è di ampliare ulteriormente la superficie forestale piantando tre miliardi di alberi. Se il processo viene gestito in modo corretto, nuovi alberi possono fornire benefici multipli: non solo assorbono CO2 ma – soprattutto nelle aree urbane – aiutano a diminuire le temperature e gli inquinanti. E poi, non dimentichiamoci del legno: utilizzarlo nelle costruzioni ha il duplice vantaggio di immagazzinare per decenni la CO2 assorbita e ridurre le emissioni associate alla produzione del cemento o dell’acciaio.
Senza le foreste l’obiettivo climatico degli accordi di Parigi non potrà essere raggiunto. Sono necessarie, ad esempio, per raggiungere la neutralità climatica: assorbendo anidride carbonica, potranno in parte compensare quelle emissioni di gas serra residue che alcuni settori (es., trasporti, agricoltura) non potranno del tutto azzerare. Ma non illudiamoci che le foreste possano risolvere da sole i cambiamenti climatici. Una rapida e drastica decarbonizzazione di tutti i settori resta assolutamente imprescindibile.
A livello globale, il 2020 risulterà il primo o il secondo anno più caldo mai registrato, dopo il 2016. Il calo delle emissioni causate dalla pandemia – si stima di circa il 5-10% – ha un effetto davvero minimo sulla temperatura globale, che è determinata dalle emissioni cumulate nei decenni passati. Prima che sia troppo tardi, occorre indirizzare le enormi risorse finanziare che si stanno rendendo disponibili – ad esempio, oltre un terzo del Recovery Fund dovrà essere sarà speso per gli obiettivi del Green deal – verso cambiamenti profondi nell’attuale sistema di produzione e consumo di energia, e in parte anche verso una migliore protezione e gestione delle foreste. Il tempo stringe, le scelte dei prossimi anni saranno determinanti.
Giacomo Grassi – Ricercatore presso il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europa, Ispra (VA)
Foto di copertina: foresta torbiera sull’isola del Borneo. Fonte: Nanang Sujana/CIFOR