Tutto quello che mangiamo ha un prezzo, che non è dato solo dalla filiera alimentare che ci porta il cibo in tavola, ma per calcolarne il costo reale bisogna considerare anche i suoi impatti ambientali. Come la perdita di habitat e specie a causa dell’espansione dei terreni agricoli, il consumo di acqua e le emissioni di gas climalteranti.
“Siamo ciò che mangiamo” o almeno così diceva il filosofo ottocentesco Ludwig Feuerbach e in effetti è difficile dargli torto perché, dopo aria e acqua, il cibo è il terzo bisogno fondamentale per tutti gli esseri viventi, specie umana compresa. Anche per questo è interessante analizzare che cosa arriva nel nostro piatto, come e quanto costa. Spesso però il costo reale del cibo è determinato da molti fattori e non sempre sono legati soltanto alla filiera produttiva.
Per capire meglio come si calcola il prezzo dei nostri pasti, ci viene in aiuto un recente articolo pubblicato sul New York Times che racconta come si compone il costo delle proteine alimentari e il loro impatto ambientale, evidenziando le differenze tra le fonti animali e quelle vegetali. Negli ultimi anni, consumatori e consumatrici dei Paesi industrializzati stanno scegliendo sempre più spesso di sostituire le fonti proteiche nella loro dieta. Questo è visibile anche nei supermercati italiani, dove gli scaffali dei prodotti a base di soia, tofu o seitan sono sempre più forniti.
Una delle motivazioni potrebbe essere anche l’aumento dei prezzi della carne, che spinge chi fa la spesa a considerare alternative più economiche, come le proteine di origine vegetale (per esempio quelle contenute nei legumi); inoltre, queste sono anche più sostenibili. Infatti, per quanto costoso sia diventato andare al supermercato, la nostra spesa sarebbe molto più cara se fossero inclusi i costi ambientali del cibo. Fra questi ci sono: la perdita di biodiversità per l’espansione dei terreni agricoli che riducono gli habitat naturali, il consumo di acque dolci e le emissioni di gas climalteranti del settore agroalimentare.
Proteine animali o vegetali?
Vediamo qualche esempio citato dal NYT grazie a True Price, un’organizzazione no-profit con sede in Olanda fondata nel 2012. La carne di manzo in un supermercato americano costa 11,22 €/kg, ma a questo prezzo dovremmo aggiungere altri 46,28 €/kg se tenessimo in considerazione anche i costi ambientali per produrla. La differenza di prezzo si calcola stimando le emissioni di gas serra dell’intero processo produttivo, tutta l’acqua consumata e gli effetti dell’allevamento sugli ecosistemi naturali.
La seconda proteina di origine animale considerata è il formaggio di latte vaccino, che negli USA costa in media 7,86 €/kg, ma il suo prezzo reale raddoppierebbe arrivando a 15,76 €/kg se calcoliamo anche i costi ambientali nascosti. Stessa situazione anche per la carne di pollo, che da un prezzo medio di 4,62 €/kg arriverebbe a 8,47 €/kg, aggiungendo il costo di emissioni, uso dell’acqua ed effetti sugli ecosistemi degli allevamenti intensivi di pollame.
Va molto meglio invece se consideriamo le proteine vegetali, perché il tofu negli Stati Uniti costa 5,09 €/kg a cui bisognerebbe aggiungere solo 0,44 €/kg per i costi ambientali; che di fatto sono legati prevalentemente alle emissioni per il trasporto e alla riduzione degli habitat naturali per far spazio alle coltivazioni di soia. Un’altra fonte proteica vegetale analizzata dallo studio sono i ceci, che nei supermercati americani costano 3,07 €/kg e a questo prezzo andrebbero aggiunti soltanto 1,56 €/kg tenendo conto del peso che la loro coltivazione ha sull’ambiente.
Una spesa e una filiera più sostenibile
Da questi dati si evince come le diverse proteine hanno dei costi ambientali nascosti molto diversi, e quelle di origine vegetale sono meno impattanti. Bisogna però sottolineare che nell’analisi fatta da True Price per il NYT non venivano presi in considerazione altri aspetti, come i costi legati ai diritti di chi lavora nell’industria agroalimentare e le ricadute sulla salute pubblica. Anche questi elementi hanno un peso nel calcolare il prezzo reale del cibo che mangiamo, così come i cambiamenti climatici causati dalle emissioni di gas serra, l’utilizzo dell’acqua di falda, il consumo di suolo e la perdita di biodiversità.
In realtà, nessuno vuole davvero far lievitare ancora i prezzi al dettaglio del cibo, né costringere tutti a cambiare le proprie abitudini alimentari e abbandonare per esempio le proteine animali. Ma chi fa questo tipo di studi, sottolinea come sarebbe bene far conoscere a consumatori e consumatrici le implicazioni ambientali che hanno le filiere agroalimentari per permettere a ciascuno di noi di fare scelte consapevoli anche quando facciamo la spesa. Oppure sensibilizzare chi lavora in questo settore a migliorare la filiera produttiva per renderla più sostenibile, riducendo emissioni, consumo d’acqua e di suolo.
D’altronde anche un documento pubblicato nel 2023 dalla FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) definisce la contabilità dei costi reali del cibo che mangiamo “un potenziale fattore di cambiamento perché può essere utilizzata per promuovere investimenti in quelle aziende che danno priorità ai benefici sociali e operano entro i limiti planetari”. Ma nello stesso documento si avverte che “numerosi gap devono essere colmati” standardizzando i metodi di analisi e raccogliendo più dati: man mano che la ricerca in questo campo avanza, anche gli incentivi potrebbero cambiare.
I costi nascosti o esternalizzati
Di questi problemi si occupa anche un interessante progetto europeo in cui è coinvolto il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro Alimentari dell’Università di Bologna: si chiama FOODCoST e vuole guidare la transizione verso sistemi alimentari sostenibili. Per raggiungere questo ambizioso obiettivo il consorzio, che include 25 partner da 13 Paesi europei, vuole richiedere una riduzione significativa dei costi ambientali e per la salute, rendendo il nostro cibo sano e sostenibile oltre che accessibile a tutti e tutte.
Sul sito del progetto si legge che oggi nei “sistemi alimentari molti dei costi dei cibi dannosi e i benefici dei cibi salutari sono di fatto esternalizzati, cioè non sono riflessi nei prezzi di mercato e quindi non influenzano le decisioni degli attori nelle filiere alimentari”. In pratica, bisogna determinare i veri costi di queste esternalità e ridefinire i prezzi reali degli alimenti per includerli nelle nostre decisioni quotidiane.
FOODCoST mira a fornire approcci e banche dati per misurare e valutare le esternalità positive e negative riguardo agli aspetti climatici, della biodiversità, ambientali, sociali e sanitari lungo tutta la filiera alimentare. Il tutto sempre basandosi su principi di costo economico e analizzando 11 casi studio diversi, per testare e arricchire gli approcci il cui fine è la transizione verso un sistema alimentare sostenibile sia in ambienti terrestri che marini.
Questa è solo una delle tante iniziative che si stanno moltiplicando attorno al tema del vero prezzo del cibo che mangiamo, ma sono tutti strumenti utili per fare scelte consapevoli anche quando facciamo la spesa. Le questioni che sollevano questi progetti hanno risvolti sia oggettivi che morali, toccando temi come la salvaguardia dell’ambiente e i diritti umani, che non dovrebbero essere violati per produrre cibo (e beni, in generale) a basso costo.
di Sara Urbani – formicablu