Il condizionatore d’aria è diventato indispensabile per difendersi da temperature estreme, ma il suo uso contribuisce alle emissioni climalteranti, e non tutti possono permetterselo. Serve un cambio di paradigma?
Il primo condizionatore d’aria elettrico è nato nei primi anni del XX secolo, negli Stati Uniti. Lo inventò l’ingegnere Willis Carrier per abbassare il livello di umidità dell’aria di una casa editrice di New York, perché faceva raggrinzire le pagine. Non ci volle molto perché l’invenzione venisse usata anche per aumentare il comfort all’interno di grandi edifici pubblici. Negli anni ‘30 appaiono le prime, costosissime, unità domestiche. Dopo quasi un secolo i condizionatori d’aria nel mondo sono quasi 2 miliardi. C’è ancora chi pensa sia un punto d’onore farne a meno, ma da tempo la letteratura scientifica ritiene questi dispositivi dei “salva vita”. Secondo la rivista scientifica Lancet nel 2019 i condizionatori d’aria hanno evitato circa 190.000 morti premature nel mondo nelle persone sopra i 65 anni.
Non serve la sfera di cristallo per intuire che in futuro i condizionatori d’aria diventeranno molti di più, anche a causa dei cambiamenti climatici: le ondate di calore sono già più lunghe e più violente. Un rapido aumento dei condizionatori d’aria può però creare diversi problemi. Per esempio, non tutti possono permettersi l’acquisto dell’elettrodomestico e dell’elettricità necessaria per farlo funzionare. Troppi condizionatori in funzione nello stesso sistema elettrico, inoltre, possono superare la capacità della rete e causare blackout. Infine, anche se condizionatori più moderni non utilizzano gas refrigeranti climalteranti e diventano sempre più efficienti, consumano comunque energia elettrica e quindi hanno un’impronta di carbonio tanto più importante quanto più il mix energetico nazionale utilizza fonte fossili per produrre l’energia che consumano. Ci si trova quindi di fronte al paradosso di un apparecchio che ci difende da uno degli effetti del cambiamento climatico e al contempo contribuisce a intensificarlo.
Il futuro dei condizionatori in Europa e India secondo uno scenario business as usual
Di questo argomento si stanno occupando gli economisti ambientali, attraverso modelli proiettano nel futuro l’adozione di condizionatori in diverse aree geografiche e i loro effetti. A marzo Francesco Pietro Colelli (Università Ca’ Foscari), Ian Sue Wing (Università di Boston) e Enrica De Cian (Università Ca’ Foscari) hanno pubblicato su Scientific reports il primo studio che stima l’impatto sul cambiamento climatico del diffondersi dei condizionatori d’aria in due zone geografiche molto diverse tra loro: l’Europa e l’India. Lo scenario adottato dai ricercatori è, nella terminologia tecnica di chi li studia, lo SSP 5 che prevede uno sviluppo economico del tipo business as usual, cioè basato sui combustibili fossili e che quindi porterebbe a un riscaldamento molto intenso (+4.4 gradi a fine secolo).
In queste condizioni, nel 2050 le abitazioni col condizionatore saranno il 40% sia in Europa (oggi 19%) che in ’India (oggi 10%). Questo è un bene per la salute pubblica, perché meno persone saranno esposte ai pericoli del caldo eccessivo, ma le emissioni (assumendo che il mix energetico non cambi) cresceranno moltissimo: tra 7 e 17 milioni di tonnellate di anidride carbonica in Europa e tra 38 e 160 milioni di tonnellate in India. I picchi di domanda di elettricità saranno molto più ampi di adesso sia nelle regioni meridionali dell’Europa sia nell’India nord occidentale. Secondo gli autori in Europa sarà soprattutto l’aumento delle temperature a determinare l’acquisto di nuovi condizionatori, mentre in India questo sarà dovuto soprattutto all’aumento del reddito.
Un problema non solo di tecnologia
Questa è l’evoluzione elaborata dagli autori con uno scenario molto “pessimista”, cioè immaginando che il mondo decida di fare poco o nulla per mitigare il riscaldamento globale e investa soprattutto sull’adattamento. C’è quindi un certo spazio di manovra per limitare i danni ambientali causati dall’aumento di condizionatori, che comunque si verificherà in molte zone geografiche diverse. Nella discussione gli autori accennano a diverse strategie.
Per esempio è possibile aumentare la capacità del sistema elettrico usando fonti energetiche non fossili e quindi a minore intensità di emissioni. Contemporaneamente è importante aumentare l’efficienza energetica. Quasi tutti i condizionatori oggi usano la stessa tecnologia dei frigoriferi: la pompa di calore. L’efficienza e gli standard ambientali però variano moltissimo, un po’ come succede col motore a combustione interna dell’automobile. Secondo il rapporto dell’International Energy Agency The future of cooling (2018) il migliore condizionatore in commercio sono cinque volte più efficienti del peggiore disponibile. Nel tempo l’efficienza reale tende a diminuire, ma il problema è che, in media, il nostro “parco condizionatori” globale non è entusiasmante. L’efficienza di un condizionatore è data dal valore SEER (Seasonal Energy Efficiency Ratio), che oggi può raggiungere 30-40. La media globale però è di appena 4 SEER, e cresce lentamente. Sarebbe importante una regolamentazione più stringente, specialmente nelle nazioni come l’India dove la media è più bassa, per favorire l’adozione di impianti più efficienti.
I climatizzatori della prossima generazione probabilmente useranno nuovi metodi per consumare meno. Per esempio il raffrescamento evaporativo utilizza l’evaporazione dell’acqua per sottrarre calore all’aria. Questo è uno dei metodi più antichi di climatizzazione, ed è ancora in uso. Il problema è che funziona bene solo in climi secchi, perché aggiunge umidità all’ambiente. Sono allo studio però dei sistemi che accoppiano il raffrescamento evaporativo a materiali essiccanti (come le perline che troviamo in piccole buste di carta in molti prodotti), che evitano l’aumento dell’umidità interna.
Anche la sola ventilazione potrebbe avere un ruolo: è meno efficiente dal punto di vista del comfort, ma è molto meno energivora. Gli autori citano anche strategie che vanno al di là dell’elettrodomestico, come costruire abitazioni più isolate termicamente e sfruttare il potenziale refrigerante del verde urbano. Queste soluzioni andrebbero progettate caso per caso, tenendo conto che è indispensabile allo stesso tempo affrontare un altro problema: come già accade oggi, sempre più persone rischiano di non avere gli strumenti per far fronte a temperature sempre più alte. Lo studio infatti sottolinea che in entrambe le regioni nel 2050 milioni di persone che avrebbero bisogno del condizionatore non se lo potrebbero permettere. Parliamo di 60 milioni di europei e ben 640 milioni di indiani.
Non c’è sostenibilità senza equità
Il problema dell’accesso ai condizionatori per le famiglie rimane anche se si considerano scenari meno estremi, come lo SSP2 che prevede al 2100 un aumento di “soli” 2.7 gradi alla fine del secolo. Peraltro, questo è vero non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per quelli ricchi. Le ondate di calore della scorsa lo hanno reso evidente: persino negli Stati Uniti, dove la penetrazione dei condizionatori d’aria è già altissima (90% delle famiglie), le famiglie più povere non possono permetterselo nonostante il suo possesso stia diventando una questione di sopravvivenza. Non solo: secondo studi precedenti l’aumento delle temperature, e quindi delle bollette, rischia di mettere in difficoltà le famiglie a basso reddito.
Per affrontare questo problema un articolo appena pubblicato su Nature sustinability introduce il concetto di povertà di raffrescamento (cooling poverty) sistemica (SCP). “Sistemica” perché l’esposizione delle persone vulnerabili a temperature troppo elevate dipende da moltissimi fattori. Questi possono essere raggruppati in cinque dimensioni: clima, infrastrutture e beni per il comfort termico, disuguaglianza sociale e termica, salute, istruzione e standard di lavoro. A loro volta queste dimensione possono essere scomposte come schematizzato nella figura.
I ricercatori spiegano che il concetto di povertà di raffrescamento sistemica devia dalle precedenti definizioni affini, come povertà energetica, perché non riduce il problema alla possibilità di acquistare un condizionatore e mantenerlo. Secondo gli autori, infatti, abbiamo povertà di raffreddamento sistemica quando mancano infrastrutture adeguate, sia fisiche che sociali. Come scrivono nella pubblicazione:
“[La SCP, povertà di raffrescamento sistemica] Evidenzia il ruolo delle infrastrutture di raffrescamento passivo (acqua e superfici verdi e bianche), dei materiali da costruzione per un’adeguata protezione termica esterna ed interna e delle infrastrutture sociali. SCP va oltre i vincoli finanziari delle famiglie per pagare i servizi energetici e guarda allo stato delle infrastrutture di base (servizi igienico-sanitari e fornitura di acqua pulita). Il suo campo sistemico considera anche lo stato della disponibilità di raffreddamento per il lavoro all’aperto, l’istruzione, la salute e la refrigerazione. In questo senso, lo spazio e il luogo giocano un ruolo chiave in questa concettualizzazione della povertà di raffreddamento. Infine, SCP guarda oltre l’energia e abbraccia un’analisi più multidimensionale e multilivello di infrastrutture, spazi e corpi.”
Da questa definizione, gli autori propongono di sviluppare un indice standardizzato della SCP che identifichi le situazioni dove serve intervenire e suggerisca anche come farlo, partendo dalle priorità. Le soluzioni dovranno essere elaborate attraverso il codesign con le parti interessate e il contributo di architetti, geografi, urbanisti, personale sanitario, ingegneri sociologi storici ed esperti interculturali.
Concludono gli autori:
“L’indice di povertà di raffrescamento sistemica può aiutare i governi a intervenire sul problema del raffrrscamento in maniera puntuale ed etica, tenendo conto dei compromessi.”
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stefano dalla casa – formicablu
Immagine in apertura: Foto di Sławomir Kowalewski da Pixabay