L’ARPA regionale ha pubblicato i dati sul clima in Emilia-Romagna per l’anno scorso, che risulta essere il quinto più caldo dal 1961. Osservare solamente un anno non è sufficiente per poter vedere gli effetti del cambiamento climatico, ma confrontare il 2020 con il passato permette comunque di fare delle riflessioni
Il riassunto rischia di essere troppo semplicistico: il 2020 è stato il quinto anno più caldo da dal 1961 a questa parte. Lo dice il rapporto annuale rilasciato da ARPA Emilia-Romagna sulla situazione climatica della regione. Ma le cose sarebbero potute essere peggiori, perché dopo i primi mesi particolarmente caldi, l’estate dello scorso anno non ha fatto registrare temperature particolarmente elevate e solo una vera e propria ondata di calore alla fine di luglio. Ciononostante, il 2020 ha fatto segnare un +1,5 °C rispetto al periodo 1961-1990.
“Osservare i dati di un solo anno non può permettere di apprezzare il cambiamento del clima”, spiega Valentina Pavan, climatologa dell’Osservatorio IdroMeteoClima di ARPAE e una delle autrici del rapporto. Da confronto con il passato, però, emergono alcuni spunti di riflessione. I quattro anni più caldi del 2020 sono tutti molto recenti (2014, 2015, 2018 e 2019) e lo scostamento dello scorso anno rispetto al clima recente (1991-2015) è di 0,5 °C, quindi inferiore rispetto allo scostamento con i trent’anni precedenti. “Se un anno non è indicativo del cambiamento climatico”, continua Pavan, “tanti anni che vanno nella stessa direzione sono invece indicativi”.
Il Rapporto dell’ARPAE contiene anche un vero e proprio diario climatico della nostra regione. Si scopre così, che quello del 2020 è stato il febbraio più caldo dal 1961. In quel mese, la temperatura più alta è stata 25,6 °C, registrata a Bobbio il 3 febbraio, ai piedi del monte Penice nella provincia di Piacenza. Il valore medio delle temperature è stato 7,7 °C, superando così i due record precedenti, registrati nel 1966 (7,0 °C) e nel 2014 (7,1 °C). A contribuire in modo particolare sul caldo febbraio del 2020 sono state soprattutto le temperature massime giornaliere, anche queste da record.
Le conseguenze sulla produzione agricola
“Al periodo particolarmente mite della prima parte dell’anno”, spiega Pavan, “è seguita una brusca gelata nell’ultima decade di marzo”. Una gelata tardiva importata si è registrata tra il 23 e il 24 marzo e ancora nei primi giorni di aprile. Secondo quanto riportato dal Rapporto ARPAE, la conseguenza è stata un enorme danno sulle colture agricole, soprattutto sulle piante da frutto, che stimolate dalla mitezza del periodo precedente avevano già cominciato a germogliare. In termini economici si stimano 400 milioni di euro di danni nella sola Emilia-Romagna.
Pavan racconta anche che il fenomeno delle gelate tardive si è verificato anche quest’anno. “Si tratta di un fenomeno che cominciamo a vedere con una certa frequenza”, continua, “al punto che ci stiamo domandando se non si tratti di una conseguenza del cambiamento più generale del clima”. Di sicuro, una maggiore variabilità è da attribuirsi al cambiamento climatico. “Temperature più alte implicano gradienti termici particolarmente intensi, che provocano spostamenti di masse d’aria più grandi”, andando ad influire sulla variabilità. Si spiegano così i cambiamenti bruschi, come il crollo improvviso delle temperature registrato a termine dell’estate. Sul ritorno del freddo e delle gelate a ridosso dell’inizio della primavera, dopo mesi di clima mite, è un fenomeno che non è ancora chiaro “se sia un segnale climatico: per il momento è un’ipotesi di ricerca”.
Bologna: isola di calore
Osservando le mappe dei giorni di caldo (temperature sopra i 30 °C) o delle temperature, l’Emilia-Romagna appare comunque segnata da una linea che unisce i punti dove il calore è più intenso: sono le città. A Bologna, per esempio, si è registrato nel 2020 un record: solo 6 giorni di gelo. Non era mai successo da quando abbiamo i dati. “Si tratta del fenomeno delle cosiddette isole di calore”, spiega Pavan, “che fa sì che quando noi climatologi andiamo a raccogliere i dati della temperatura dobbiamo prestare particolarmente attenzione al punto in cui viene registrato il dato, se si tratta di una zona urbana oppure di un’area rurale”.
Fonte: Rapporto dell’ARPAE sull'IdroMeteoClima 2020 in Emilia-RomagnaIl fenomeno delle isole di calore è ben noto da anni a chi studia il clima e si verifica perché l’ambiente urbano determina un microclima più caldo rispetto alla campagna. Le cause sono una maggiore concentrazione di sorgenti di emissioni di gas serra (veicoli, impianti industriali), una maggiore presenza di asfalto e di edifici che favoriscono il mantenimento della temperatura. Secondo uno studio di C40, una rete internazionale di grandi città che si sono impegnate ad affrontare il cambiamento climatico, già oggi in 354 città del mondo le temperature medie estive sono superiori ai 35 °C.
Le città e la pericolosità legata al clima
Le città rappresentano una criticità non solo in termini di isola di calore, motivo per cui si fugge sui colli o sulla Riviera, ma anche di pericolosità. Una maggiore densità abitativa, una più elevata concentrazione anche di attività produttive ed economiche significa un maggior numero di persone a rischio per esempio per le ondate di calore. “Questo è un aspetto importante, perché ci dovrebbe necessariamente portare a riflettere se il territorio sia sfruttato in modo rispettoso”. È un punto essenziale dell’attività di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e il punto di partenza non può che essere la raccolta puntuale di dati sull’andamento dei parametri su tutto il territorio. “Per questo motivo nel corso degli anni abbiamo sempre cercato di migliorare la rete di stazioni di rilevamento regionali”, racconta Pavan. “Oggi sono circa 300, ma sappiamo che non sono equamente distribuite e su questo stiamo cercando di correre ai ripari”.
di marco boscolo - formicablu