Aumento di frequenza di eventi estremi, precipitazioni intense, inondazioni, siccità e ondate di calore. Ma anche problemi di salute: con le temperature aumenta anche la circolazione di malattie infettive causate da virus di origine tropicale che adesso circolano in zone che una volta erano temperate. Il risultato? Maggior stress per l’organizzazione della vita cittadina: strutture sanitarie sotto pressione, sistemi di gestione idrica in difficoltà, verde urbano a rischio, eccesso di uso dei condizionatori, e via dicendo.
Uno scenario futuribile? No, già contemporaneo.
Come ben dimostrano diversi rapporti usciti nelle ultime settimane. Da Urban adaptation in Europe, dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA), al Rapporto del Centro Euro-Mediterraneo per i cambiamenti climatici, il CMCC, sull’analisi del rischio in Italia.
Il Rapporto CMCC dedica alle città una vera e propria infografica che riassume numeri e tipologie di rischi:
Tra le azioni prioritarie da mettere in campo per contrastare la crisi a livello urbano, la EEA include i sistemi di sorveglianza e di early warning, e quindi di allerta tempestiva, uniti a un aumento della consapevolezza civica per farsi trovare impreparati di fronte all’emergenza. Oltre all’adozione delle cosiddette nature-based solutions, cioè le soluzioni basate sulla natura, alternative utili a conservare, gestire in modo sostenibile e preservare la funzionalità di ecosistemi naturali. O a ristabilirla in quelli già alterati. Queste soluzioni includono la forestazione urbana, i giardini verticali e altre infrastrutture verdi che aiutano a conservare l’acqua e ad abbassare la temperatura, i corridoi ecologici e molto altro.
Uno sguardo ai dati
Un tema chiave messo in luce dall’Agenzia europea per l’ambiente è la necessità di partire da una valutazione specifica dei rischi sul proprio territorio. Un passaggio che però, al momento, è difficile capire da quante città sia stato effettivamente realizzato.
Il rapporto EEA fa riferimento a due diversi database che offrono una panoramica della situazione.
Il primo è un database curato dal Joint Research Centre (JRC) che gestisce i dati delle città aderenti al Patto dei sindaci per il clima che conta oltre 10mila città aderenti in tutto il mondo. Di queste, sono 2021 le città che appartengono a uno dei 34 paesi membri della EEA (più ampia dell’Unione Europea ma più ristretta rispetto al totale dei paesi in cui ci sono città aderenti al Patto) che stanno sviluppando un patto di adattamento. Sono però solo 226 quelle che presentano anche una auto-valutazione dei propri progressi e ancora meno quelle che presentano piani precisi, con azioni definite, risorse economiche impegnate e stakeholders coinvolti.
Tra l’adesione ai patti e la produzione dei piani ci sono due anni di tempo e quindi è probabile che molte città siano al lavoro proprio in questi mesi. Come Bologna, che sta producendo il nuovo piano di adattamento e proprio in queste settimane sta valutando le proposte arrivate da tutti i soggetti coinvolti nel percorso partecipativo, dopo aver approvato un primo piano nel 2015, come abbiamo già accennato parlando della Dichiarazione di emergenza climatica.
La EEA mette in evidenza il fatto che comunque il database analizzato non può essere rappresentativo: ci sono soprattutto città piccole, con oltre la metà degli aderenti sotto i 10mila abitanti, e più di tre quarti degli aderenti proviene dal Sud Europa. Questo, aggiungiamo noi, potrebbe anche essere un indicatore della necessità per molte città dei paesi del Sud Europa di fare affidamento sui fondi europei per poter sviluppare e attuare i piani, una necessità che potrebbe essere meno presente nei paesi del Nord Europa che hanno maggiore capacità di investimento interno.
C’è poi un altro database, quello della no profit CDP considerato uno degli standard più alti del monitoraggio di diversi parametri ambientali a livello globale. Tra le città monitorate da CDP ce ne sono 163 che appartengono a 26 paesi della EEA. In questo caso si tratta principalmente di città medio-grandi sia del Sud (65) che del Nord (52) Europa con una minore presenza sia delle città dell’Europa orientale che di quella occidentale.
I due database dunque consentono di avere una prima fotografia delle città che si sono attivate per avere dei piani di adattamento, ma non sono comprensivi di tutte le realtà che operano in questa direzione. Ci sono paesi che hanno posto la transizione e l’adattamento al cambiamento climatico come obiettivo prioritario di politica interna e quindi ci sono senz’altro città che stanno lavorando all’interno di quadri legislativi di riferimento e anche di sistemi di finanziamento che possono rimanere dentro un ambito nazionale. Come è probabilmente il caso per molte città del Nord Europa.
Molto si può fare ma è necessario passare all’azione
I piani di adattamento sono il primo fondamentale passo.
Aiutano non solo a mettere in campo le risorse e a definire le politiche necessarie ma possono mobilitare gli attori di un territorio, dalle istituzioni pubbliche agli operatori del sistema economico-produttivo fino alla cittadinanza e alle organizzazioni della società civile. Tutti svolgono un ruolo chiave nel modificare pratiche di vita e di lavoro non più sostenibili e non in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di contenimento degli impatti del clima.
Nel corso del webinar (disponibile in inglese) “Cities at risk: a snapshot of urban adaptation actions worldwide” svolto nel mese di ottobre, il CMCC presenta, con molti dati e casi studio derivati dall’analisi di oltre 620 città, diversi esempi di soluzioni nature-based adottate in ambito urbano che possono essere di ispirazione anche per altre città. Il webinar è tenuto da Catherine Higham, che è regional manager EMEA proprio alla CDP, cui abbiamo accennato qui sopra. La presentazione di Higham quindi contiene dati aggiornati e complementari a quanto presentato nel report EEA.
Siamo solo all’inizio, dobbiamo andare avanti decisi
La EEA è diretta nelle sue conclusioni: molte città non hanno nemmeno ancora redatto un piano di adattamento climatico, e anche quelle che l’hanno fatto sono spesso ancora in una fase di elaborazione e progettazione teorica. Ma è urgente entrare in una fase concreta, operativa, dove misure pratiche sono messe in campo. Una fase più difficile, senza dubbio, perché richiede maggiori investimenti e impegni concreti.
E c’è un altro aspetto importante: non è possibile, ad oggi, sapere con esattezza quale sarà il successo di queste misure, quanto saranno effettivamente efficaci, perché le città sono sistemi complessi e la riuscita di questo approccio dipende da molti fattori.
Per questo, oltre alla stesura di piani di azione, è urgente e necessario organizzare anche sistemi precisi di monitoraggio dell’attuazione di queste pratiche. Dobbiamo capire cosa funziona ed poter eventualmente aggiustare il tiro se e quando necessario.
Ci vuole anche un continuo lavoro di confronto tra le città. Per capire quali strategie siano più adatte alle diverse situazioni e contesti. E per ottenere tutte le risorse necessarie, che non sono naturalmente solo quelle disponibili a livello locale. E sono in tanti, ora come ora, quando si ragiona sul Green New Deal europeo e sul Recovery plan, a contare proprio su quelle risorse come un’opportunità unica che non deve andare sprecata.
«L’assenza di una unica visione comprensiva della pianificazione e delle azioni di adattamento a livello locale in Europa preclude una valutazione dettagliata del livello di preparazione per contrastare la crisi climatica in Europa» sottolinea il rapporto, «Un sistema di monitoraggio continuo e di reporting dei piani di adattamento locali è necessario perché l’Unione Europea e i governi nazionali possano effettivamente dare supporto all’adattamento locale.»
Elisabetta Tola – formicablu
Foto di apertura @pfigio – CC-BY-SA