Piazza Santo Stefano è uno dei luoghi più rappresentativi di Bologna. Spesso, in scenari così affascinanti, siamo portati a guardare in alto; chi ha una disabilità motoria, però, è abituato a indirizzare lo sguardo prima di tutto verso il basso.
La pavimentazione della piazza è tempestata di ciottoli, un incubo per chi non ha molto equilibrio nel cammino o per chi si muove in sedia a rotelle, ma presenta anche tre lunghe strisce di piastrelle un po’ incurvate ma lisce, che si incontrano in un punto centrale della piazza e collegano l’ingresso delle Sette Chiese ai portici. Evitare il fondo sconnesso e potersi muovere su una sezione di pavimentazione levigata può dare un grosso sollievo.
È difficile dire se quelle listarelle siano state pensate per persone, ma forse sarebbe saggio non crederci. Guardiamoci intorno: quanti spazi delle nostre città sono progettati e realizzati per includere le persone con disabilità? Pochi? Pochissimi? Nessuno?
Lo spazio non è neutro
Ilaria Crippi è un’attivista disabile, ha studiato come progettista sociale e si occupa da tempo di promozione dei diritti delle persone con disabilità. Ha scritto un libro, dal titolo Lo spazio non è neutro (Tamu Edizioni, 2024). Nelle centottanta pagine del volume si parla di accessibilità, di lotta anti-abilista, di ostacoli visibili e invisibili che rendono più difficile la vita delle persone disabili.
La contattiamo via mail e le facciamo una domanda su un termine che usa nel libro, “emergenza”, in riferimento alla marginalizzazione sistemica subita da molte persone con disabilità, che non possono accedere a gran parte degli spazi aperti al pubblico e non sono tenute in considerazione quando si disegnano lo spazio urbano e gli edifici.
Questo senso di emergenza, però, non è effettivamente interpretato in termini collettivi. «La disabilità è ancora percepita come un problema medico e individuale, non sociale», risponde. «Se perdi la vista e non sei più in grado di andare ogni sabato in centro come hai sempre fatto, pensi che sia una rinuncia inevitabile e dovuta alla tua cecità, non alla mancanza di taxi gratuiti per farti accompagnare dove vuoi. Abbiamo tutte imparato che per essere libere dobbiamo mantenere un certo standard psicofisico: quando lo perdiamo ci sembra normale perdere anche la nostra libertà. Non pensiamo che sia la società a doversi organizzare per garantirci gli stessi diritti indipendentemente da una eventuale disabilità. Imparare a vedere l’oppressione abilista è un percorso».
Il radicamento della battaglia anti-abilista
Di sicuro esistono battaglie in favore di persone marginalizzate che sono state abbracciate anche da soggettività che non appartengono alle comunità discriminate. In molti, e anche questa è un’emergenza, adottano ancora una mentalità omolesbobitransfobica, ma il sostegno per le rivendicazioni della comunità LGBTQ+ sembra aver raggiunto un pubblico ampio, quantomeno nei contesti giovanili delle grandi città. Un processo simile intorno ai diritti delle persone con disabilità non si è ancora concretizzato.
«Penso che i motivi siano moltissimi», dice Crippi, che poi li elenca con pazienza. «In primis manca una narrazione di tutti i modi in cui la società ci disabilita non prevedendo la nostra presenza. Come può sorgere un movimento ampio contro un problema sociale che quasi nessuno inquadra come tale? Bisogna anche considerare che per le stesse persone disabili è difficile fare attivismo, spesso proprio a causa della disabilità, e che le questioni specifiche sono un po’ complesse per renderle comprensibili all’esterno. Ma il problema più grave, a mio avviso, è proprio interno al movimento. Le grandi federazioni che rappresentano le persone disabili a livello nazionale sono finanziate dal governo. Con questi fondi vengono realizzati servizi importanti, ma chi va avanti grazie a finanziamenti “dall’alto” di certo non guiderà movimenti di rottura».
In una sezione del libro si parla di design universale. Si tratta, in sintesi, di un approccio alla progettazione che si pone l’obiettivo di rendere un oggetto o uno spazio utilizzabile da un’ampia gamma di esseri umani. Qui si torna al ciottolato di cui sopra. Molte città in Italia hanno pavimentazioni antiche di questo tipo, o palazzi storici con scalinate molto strette e inaccessibili, elementi che, pur avendo un valore in termini storici e turistici, sono in aperto conflitto con il diritto di circolazione o di accesso delle persone disabili. Come si può sciogliere questo conflitto
«Anzitutto, la narrazione secondo cui su un edificio storico “non si può fare niente” è falsa: viaggiando per l’Europa ho visto cattedrali con antichi portoni elettrificati per poterli aprire premendo un pulsante e gradinate in pietra “scavate” per ricavarci una rampa d’accesso perfettamente integrata con il contesto. La nostra stessa normativa richiede di trovare delle soluzioni per l’accessibilità anche nei luoghi di interesse culturale, al limite con opere provvisionali. Il punto chiave, però, è un altro: possiamo chiederci come è stata definita la nostra idea di bellezza, di valore da tutelare? Le nostre convinzioni su cosa va conservato, cosa è intoccabile, cosa è bello e cosa è brutto sono tutti prodotti culturali e relativi. Facciamo un esempio: l’esperienza di attraversare una piazza storica col ciottolato può essere poetica per chi cammina, mentre una persona in carrozzina nemmeno osserverà l’arte attorno a sé, concentrata a evitare cadute e sopportare spasmi alle gambe. Questa esperienza dello spazio è altrettanto “bella”? Non è che abbiamo costruito la nostra idea di “bello” solo sull’esperienza delle persone non disabili, ovvero in modo abilista?»
Nuovi ideali di bellezza
Insomma, è senz’altro possibile e utile trovare compromessi tecnici; ma per Crippi la vera sfida è rivedere l’idea di bellezza di una città in chiave antiabilista. Infatti le norme estetiche, anche in modo non voluto, possono svolgere una funzione oppressiva sulle persone con disabilità.
«Quanta libertà e sicurezza per le persone disabili viene sacrificata sull’altare del “bello”? La questione mi ricorda il conflitto attorno all’idea di decoro urbano, a volte usata per spazzare via quelle parti di umanità e quelle forme espressive che non vogliamo vedere in giro. O il tentativo di sfuggire ad un’idea normativa di bellezza dei corpi. Capiamoci, un’idea di bellezza abilista l’abbiamo interiorizzata tutte, persone disabili comprese: anche i miei occhi vedono i colori stonati o le rampe bruttine. Poi però faccio lo sforzo di chiedermi perché mi sembrano bruttine e resto in ascolto degli altri significati che quel paesaggio può trasmettermi: libertà, uguaglianza, restituzione di uno spazio alla collettività tutta… Siamo in grado di leggere la bellezza in questo?»
Per finire, Crippi lancia una provocazione: «Siamo abituate a pensare che l’accessibilità sia accettabile solo se si mimetizza col contesto. E se invece trattassimo le rampe come una testimonianza materiale della nostra lotta per l’emancipazione? Allora sarebbero da evidenziare, come un nuovo tassello di quella storia umana che proprio le sovrintendenze vogliono rendere visibile e valorizzare. Dobbiamo cercare un’accessibilità che si nasconda, che ci rassicuri sul fatto che non modificherà nulla del paesaggio urbano (abilista) cui siamo abituate? Oppure possiamo perseguire un’idea rivoluzionaria di accessibilità, che non nasconde il cambiamento ma anzi lo celebra – proprio perché quel cambiamento vuol dire abbattere un’idea di “normale” e di “bello” costruita esclusivamente in base alla sensibilità delle persone non disabili?».
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Andrea Pracucci – formicablu