Che cos’è la “città di 15 minuti” e perché tutti ne parlano

La cosiddetta “città di 15 minuti” è un modello di pianificazione urbana che punta a rendere le città più vivibili e meno impattanti per l’ambiente  limitando la necessità di lunghi spostamenti.  Il dibattito sui pregi e i difetti di questo approccio è inquinato da chi crede che si tratti di una forma Orwelliana di controllo sociale. Ma le città dei 15 minuti non sono affatto un’idea nuova.


Nel 2016 l’urbanista della Sorbona Carlos Moreno coniò l’espressione “città di 15 minuti“. Debuttò in un articolo a sua firma sul giornale francese La tribune intitolato “La città del quarto d’ora: per una nuova cronourbanistica”. Scriveva lo studioso:

Conciliare le esigenze della città sostenibile ma anche i nuovi ritmi con altri modi di abitare, abitare, lavorare e trascorrere il tempo libero, richiede una trasformazione dello spazio urbano ancora fortemente monofunzionale, con il centro città e le sue diverse specializzazioni verso una città policentrica, spinta da 4 componenti principali: prossimità, diversità, densità, ubiquità. È la città di un quart d’ora, di iperprossimità, di “accessibilità” a tutti e in ogni momento… Quella in cui, in meno di 15 minuti, un abitante può accedere ai suoi bisogni essenziali della vita.

Nel frattempo Anne Hidalgo era dal 2014 sindaca di Parigi, e da allora si è distinta per i suoi tentativi di limitare le auto in città. Durante la campagna per la rielezione, nel 2020, Hidalgo appoggiò esplicitamente la “città di 15 minuti” di Moreno, che entrò nel suo programma. Intanto, un virus sconosciuto era emerso in Cina e di lì a poco il mondo sarebbe cambiato per sempre. La pandemia ci ha costretto a riflettere su molte cose, e una di queste è la gestione dello spazio e degli spostamenti, soprattutto in città. E così l’idea della “città di 15 minuti” comincia a diventare globale, perché promette di aumentare la qualità della vita e, allo stesso tempo, rendere la città più efficiente e quindi più sostenibile.  Anche a Bologna, quando l’Italia era ancora divisa nelle zone a rischio epidemiologico, sono stati organizzati alcuni incontri pubblici per parlarne. È stato anche sviluppato il progetto “Per una governance collaborativa dei dati della Comunità“, che ha utilizzato i dati (anonimi) della rete BolognaWifi per studiare i movimenti delle persone per mappare l’utilizzo della città intono a 4 zone di interesse: piazza Maggiore / Podestà, piazza di Porta Ravegnana, piazza dell’Unità e Giardini Margherita. In questo modo, si legge sul sito Open data del comune “attraverso zone e punti di interesse è possibile dunque tracciare delle “percorrenze di prossimità”. In altre parole, una Bologna percorribile a piedi in 5, 10, 15 minuti, su diverse direttrici.” Va detto che l’amministrazione non sembra aver esplicitamente fatto propria l’espressione “città dei 15 minuti”, ma da diverso tempo promuove (specialmente per il centro), iniziative che appartengono a quell’ambito (come dicevamo, non nuovo): pedonalizzazione, ciclabilità, zone a basse emissioni, città 30. La parola chiave è prossimità.

Nel 2022, però, la “città di 15 minuti” viene distorta in chiave complottistica, una metamorfosi che però la rende ancora più famosa. C’è chi teme che la di 15 minuti sia, in realtà, l’ennesima formula per controllare le persone contro la loro volontà. In sostanza, si tratta di un piano per ridurre la libertà di movimento in modo che diventi più semplice, per esempio, istituire ulteriori lockdown. Per questo motivo si dovrebbe sospettare non solo di chi parla apertamente di città dei 15 minuti, ma anche di qualunque progetto che incentivi lo spostamento in bici e a piedi a scapito dell’auto.

Una vecchia idea per tempi nuovi 

Esiste davvero un’associazione tra città dei 15 minuti e lockdown, ma non è quella inventata descritta poc’anzi. L’evento epocale che abbiamo attraversato, incluse le diverse forme di confinamento (lockdown) sperimentate un po’ ovunque, ci hanno reso ricettivi a certe idee e discussioni già in corso. E la “città dei 15 minuti”, infatti, è un’idea molto più vecchia dell’articolo di Moreno, il quale ha il merito di aver trovato un’espressione comprensibile e concisa per comunicarla. L’idea è semplice, quasi banale: tutte le persone dovrebbero avere la possibilità di vivere in prossimità di tutto quello di cui hanno bisogno, dai negozi, alla scuola, al lavoro. Una volta molte città erano effettivamente così, ma soprattutto dalla fine della II Guerra mondiale l’urbanizzazione ha seguito il modello della città diffusa, o urban sprawls. In sostanza, una crescita disordinata e poco pianificata, che divide il territorio in aree funzionali. Abbiamo quindi i quartieri residenziali, quelli industriali, commerciali, e istituzionali. Ogni persone si deve spostare da una zona all’altra della città per soddisfare le sue esigenze, e molte volte questo è possibile solo grazie all’automobile.

In Emilia Romagna, e in tutta la pianura padana, l’urban sprawl è ben rappresentato, e criticato, da prima della pandemia. Per cominciare, consuma molto suolo. Poi costringe molti di noi a guidare ogni giorno, e quindi a inquinare, rendendo nel frattempo le strade meno sicure. Se ci sono i mezzi pubblici, la distanza da percorrere li rende poco convenienti. Per non parlare della manutenzione dei collegamenti (strade, utenze, ecc…). L’opposizione a questo tipo di sviluppo non è una novità e, anche senza usare l’espressione “città dei 15 minuti” molti urbanisti da decenni caldeggiano modelli alternativi che puntano a sfruttare lo spazio in modi più intelligenti. L’urbanista statunitense Clarence Perry nel 1929 introdusse il concetto di unità di vicinato, vale a dire un ritorno al vero e proprio quartiere come luogo di comunità. Perry, arrivò a questa idea cercando il modo migliore di distribuire i parchi gioco a New York in modo che fossero raggiungibili in sicurezza dai bambini. A distanza di quasi 100 anni, l’idea di fondo non è cambiata, ma secondo i sostenitori abbiamo molti nuovi motivi per promuovere città più razionali.

La città dei 15 minuti in teoria e in pratica

Non sono idee nuove, e nemmeno così “radicali”, ma non per questo sono facili da attuare in ogni contesto urbanoLa città dei 15 minuti, insomma, può essere criticata come ogni proposta, senza ricorrere a fantasie deliranti e a propaganda. Per esempio, un articolo dell’anno scorso su Politico racconta l’esperienza del rione Testaccio a Roma. Nel XX secolo cominciò la costruzione di case popolari intorno al mattatoio, costruito nel 1888. Un progetto all’avanguardia, che poi dotò il quartiere anche di tutti servizi necessari alle famiglie. Poi, però, il mattatoio chiuse e anche altre industrie si spostarono. Gli operai che abitavano in quelle case cominciarono a dover fare i pendolari, rinunciando di fatto a godersi il bel quartiere in cui abitavano. A partire dal nuovo millennio, i ricchi professionisti della città cominciarono a comprarsi le ex-case popolari, e anche lì cominciò la gentrificazione. Molte di queste persone non devono presentarsi fisicamente al lavoro ogni giorno, e possono quindi godersi i vantaggi di vivere senza l’obbligo dell’auto sulle sponde del Tevere. Politico si chiede quindi se, alla fine, la città di 15 minuti sia possibile solo per i privilegiati e non per tutti.

La voglia di sperimentare nuovi modelli di città però è forte, ed è prematuro fare di tutta l’erba un fascio in un senso e nell’altro. Una metropoli che sia davvero policentrica dovrebbe in teoria ostacolare la gentrificazione, per arginare la quale è anche possibile appunto investire in nuove case popolari (come è successo a Parigi). La pianificazione urbana inoltre andrebbe condivisa coi cittadini attraverso strumenti partecipativi come il codesign (come ha fatto Milano). Per i promotori, proprio perché l’idea non è nuova non ci mancano i casi studio, e lo slancio di cui gode ora potrebbe portare a cambiamenti concreti.

La teoria del complotto va a braccetto col negazionismo climatico

Non sappiamo quante persone pensino davvero che la “città dei 15 minuti” si un piano liberticida, e come ogni teoria del complotto la sua evoluzione è molto complessa. Sappiamo però che non si limita al chiacchiericcio sui social, perché è già stata impugnata da diversi politici e ha spinto alcune persone a manifestare di persona. Sembra anche chiaro che la teoria del complotto sia strettamente imparentata col negazionismo dei cambiamenti climatici e che per questo risuona per lo più in ambienti conservatori.

La città dei 15 minuti servirebbe infatti a facilitare il cosiddetto “lockdown climatico“: gli occulti manovratori del mondo si preparerebbero a intrappolare le persone con la scusa di diminuire le emissioni e combattere il riscaldamento globale, proprio come avevano fatto con il nuovo coronavirus. È bene precisare che queste idee non sono nate spontaneamente nelle chat tra anonimi sprovveduti, ma da persone e gruppi che da sempre hanno ostacolato qualunque tipo di azione contro i cambiamenti climatici. L’espressione “lockdown climatico” è stata usata dalla stampa nei tumultuosi giorni dei primi lockdown in Europa, ma sono stati i negazionisti climatici dello Heartland Institute a impugnare l’espressione paventando il rischio che la “dittatura sanitaria” fosse un preambolo alla “tirannide climatica”. Il complotto della città dii 15 minuti si quindi innestato perfettamente su quello del “lockdown climatico”.

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