Dal primo luglio Bologna è la prima grande città italiana ad abbassare i propri limiti di velocità a 30 km/h sulla maggior parte delle sue strade. Ecco cosa dicono gli studi su questo tipo di politiche sperimentate da decenni in tutto il mondo.
Per i bolognesi non dovrebbe essere stata una sorpresa. La prima “zona 30” di Bologna è stata istituita nel 1989 in tutto il centro storico, la prima in un quartiere fuori dal centro nel 2005, in Cirenaica, e da allora sono diventate decine. Negli ultimi anni si è poi sempre parlato, nella nostra regione e non solo, della necessità di superare la concezione di “zone 30”, che “deve evolvere in quello di “Città 30”, secondo il quale la velocità compatibile con ragionevoli livelli di sicurezza in ambito urbano è quella dei 30 km/h, come hanno fatto e stanno facendo molte città europee tra le quali Parigi, Berlino, Madrid, Bilbao, Barcellona, …” (dalle Linee guida per il sistema regionale della ciclabilità (L.r. n. 10/2017), pubblicate nel 2019).
La pandemia probabilmente ha avuto un ruolo importante nel determinare gli ultimi passi in questa direzione, anche dal punto di vista dei finanziamenti. E così lo scorso autunno la giunta Lepore ha approvato le linee di indirizzo per la realizzazione del piano “Bologna Città 30“, che ora è una realtà.
Non mancano le proteste. Alcuni partiti all’opposizione propongono un referendum per lasciar esprimere la cittadinanza, mentre gli imprenditori bolognesi lamentano di non essere stati abbastanza coinvolti e temono che in qualche modo la “Città 30” renda la vita più difficile alle attività colpite dall’alluvione. Proteste di questo tipo hanno investito anche città al di fuori dell’Emilia-Romagna che stanno pianificando un percorso simile a quello bolognese, come Milano. Se da una parte è fisiologica la diffidenza nei confronti di un cambiamento, dall’altra va detto che la “Città 30” non è esattamente una novità, anzi… Sono stati condotti molti studi in tutto il mondo, ed esistono quindi i dati per guidare questo tipo di percorso, a Bologna e altrove.
Un’idea “antica” e molto collaudata
Il limite di 30 km/h in città, o di 20 miglia orarie nei paesi anglosassoni, è infatti sperimentato da decenni. La prima “Città 30” al mondo è stata Graz, in Austria, che ha introdotto questo limite nel lontano 1992. Il primo comune italiano è stato invece Saronno, nel 2011. In tutta Europa le “Zone 30” sono diventate la norma, e la transizione verso la “Città 30” procede spedita. Recentemente il Galles, una delle nazioni del Regno unito, ha esteso il limite di 20 miglia orarie a tutte le zone residenziali del territorio (non senza le usali polemiche), mentre dal 2021 in Spagna è in vigore una legge nazionale che ha trasformato tutte le aree urbane in “Città 30”. Persino negli Stati Uniti questo limite, una volta utilizzato solo in prossimità delle scuole, si sta estendendo sempre di più.
La logica delle “Zone 30”, e per estensione della “Città 30”, è intuitiva: riducendo la velocità si riduce anche la probabilità di incidenti e in particolare quelli gravi o mortali. La differenza nella mortalità alla riduzione della velocità è più grande di quanto si potrebbe pensare: gli utenti deboli della strada (cioè non protetti da un veicolo) sopravvivono quasi sempre se investiti da un’auto che viaggia a 30 km/h. Ma la maggior parte muore se viene investita da un’auto che viaggia anche a “solo” 50 km/h.
Ma in che modo si riduce velocità? Non solo con la segnaletica o le campagne di informazione, né con la paura delle multe. Il limite “sulla carta” deve essere accompagnato da misure per la moderazione del traffico. Nulla di avveniristico: parliamo di dossi artificiali, strade più strette, rotatorie… misure a cui siamo già abituati e che, quando siamo al volante riescono a farci istintivamente rallentare senza dover tenere gli occhi incollati al tachimetro. A Bologna alcuni di questi interventi sono già stati effettuti, altri sono in programma. Stando al sito istituzionale Bologna città 30:Nei prossimi tre anni Bologna cambierà volto con diversi interventi: messa in sicurezza di strade, incroci e attraversamenti, nuove piazze pedonali con più verde e sedute, strade e piazze scolastiche, piste e corsie ciclabili, riqualificazione e manutenzione di marciapiedi e strade, abbattimento di barriere architettoniche.
Tali misure quindi consentono contestualmente di rimodellare la città in maniera da agevolare gli spostamenti a piedi e in bici. Anche in questo caso nulla di nuovo: da decenni le città più avanzate puntano in questa direzione, cercando di prendere a modello quelle famose città del Nord Europa che intorno agli anni ’70 hanno deciso di convertirsi alla bicicletta. La più famosa di queste città è Amsterdam, capitale mondiale delle due ruote. Forse non viene abbastanza ricordato che il motivo principale che spinse l’amministrazione a cambiare tipo mobilità non fu l’ambiente, ma la sicurezza stradale. Col boom economico del dopoguerra Amsterdam, negli anni ’50 e ’60, era diventata il regno dell’automobile nonostante la sua forte tradizione ciclistica. Ma per molti cittadini gli incidenti uccidevano troppe persone: nel 1971 furono 3300, di cui 400 bambini, e scattarono le proteste. Poi lo shock petrolifero del 1973 e il conseguente aumento del prezzo dei carburanti spinse l’Olanda a imporre le domeniche senz’auto. Le vendite di bici si moltiplicarono e gli attivisti, ad Amsterdam e altrove, guadagnarono ulteriore consenso e alla fine si convinsero anche i politici. Tra le misure che, nel tempo, portarono la città a misura di bicicletta ci fu appunto l’istituzione di zone a 30 km/h nelle aree residenziale, un limite inizialmente previsto solo in caso di lavori in corso.
Che cosa dicono gli studi sul limite urbano di 30 km/h
Anche oggi il primo motivo per abbassare il limite di velocità è la sicurezza. Il buon senso però non basta: è necessario misurare cosa succede nel mondo reale quando le città decidono di introdurre questo limite di velocità. A questo proposito è utile dare un’occhiata al lavoro condotto da Dr Adrian Davis per il Galles. Prima della pandemia l’esperto ha analizzato le pubblicazioni uscite tra il 2010 e il 2018 e riassunto i risultati principali. Ne è emerso un consenso molto netto: anche in città, dove la velocità media è già ridotta, le collisioni diminuiscono. I risultati confermano stime precedenti che parlano di 6% in meno di incidenti per ogni miglio orario di velocità in meno. Questo vuol dire anche meno vittime, che molto spesso sono pedoni o ciclisti. Una minore velocità, infatti, regala a tutti tempo per reagire: ai conducenti dei veicoli, ai pedoni e ai ciclisti. E se c’è comunque un incidente, tende a essere meno grave. Davis fa anche notare che questo limite di velocità protegge i bambini, perché secondo uno studio sarebbero meno abili a percepire l’avvicinamento di un veicolo a oltre 25 mph (40 km/h).
Per quanto riguarda gli altri benefici teorici di un limite a 30 km/h le prove sono meno solide. Per esempio non è detto che basti questo a migliorare la qualità dell’aria. Questo è ripetuto anche in una brochure della campagna Streets for life dell’Organizzazione mondiale della salute, che supporta con forza la “Citta 30”: non ci sono prove sufficienti per affermare che il limite riduca l’inquinamento. Allo stesso tempo, è falso affermare che l’inquinamento aumenti a causa delle velocità più basse. Il punto è che la relazione tra inquinamento dei veicoli e velocità è molto complessa, quindi l’impatto sull’inquinamento non è evidente né in un senso né nell’altro. Si può però supporre che, laddove questa misura sia accompagnata da adeguate infrastrutture a supporto, aumenti nel tempo la mobilità attiva (bici e pedoni) e quindi ci siano anche benefici ambientali e per la salute individuale.
Quello che conta di più oggi, ancora una volta, è il beneficio indiscutibile dal punto di vista della sicurezza stradale. Per dare un’idea di quello che c’è in gioco a Bologna, si può consultare l’ultimo rapporto pubblicato dall’ufficio statistico, relativo al 2019. Nella città metropolitana quell’anno ci sono stati 7.079 incidenti, di cui 3.805 con infortunati. 27 i decessi. Il 72% degli incidenti è avvenuto in ambito urbano. Questi incidenti sono costati alla collettività 363 milioni di euro.
La narrazione del “controllo sociale”
Se da un lato c’è sempre stato chi si è opposto, nel mondo le proteste attuali alla “Città 30” sono caratteristiche. Come nel caso della cosiddetta “Città dei 15 minuti“, un’altra idea non nuova e complementare a quella della “Citta 30”, ora si sottolinea che il vero obiettivo è quello del “controllo sociale”. Secondo i critici con queste misure le persone sono costrette a perdere un pezzo per volta la propria libertà costituzionalmente garantita, come sarebbe accaduto (a loro dire) nel caso delle dei lockdown e delle altre strategie di controllo della pandemia.
Il problema è che, stando ai sociologi, il controllo sociale è presente ovunque ci sia società. Quando si vive assieme servono delle regole condivise, e per questo esistono leggi e regolamenti. Queste le prime righe della definizione sull’encliclopedia on line Treccani.
L’insieme degli influssi e delle pressioni che si instaurano per l’esistenza dei rapporti tra gli uomini riuniti in gruppo e che mirano a eliminare determinati atteggiamenti e attività individuali e a promuoverne altri; in tal modo il gruppo indica al singolo come deve comportarsi, in conformità alle mete approvate dal gruppo e secondo i mezzi riconosciuti validi per il loro raggiungimento.
Quindi, se andare a 30 all’ora in città è controllo sociale, lo è anche il divieto di parcheggiare sul marciapiede, l’obbligo di usare le strisce per i pedoni, rispettare le luci del semaforo, guidare dalla parte destra della carreggiata. Bisognerebbe piuttosto chiedersi se una misura di controllo sociale è lesiva di qualche diritto o di qualche libertà fondamentale, insomma se il controllo diventa oppressione o discriminazione nei confronti degli individui o di un gruppo. Esempi di questo tipo di certo non mancano, ma sembra difficile riconoscerli nella “Città 30”. Il limite infatti non impedisce agli automobilisti di spostarsi, e lo stesso tragitto richiederà loro più o meno lo stesso tempo. Questo dato sembra controintuitvo, ma è importante sottolineare che è assolutamente corretto. Già oggi, in qualunque città simile alla nostra, nel suo tragitto un veicolo è spesso fermo (ci sono i semafori, gli stop, le fermate dei mezzi pubblici…) o si muove a velocità inferiori a questo limite. Il tempo di percorrenza totale è soprattutto determinato da queste condizioni, cioè è poco influenzato dalla velocità di picco. In altre parole, quando in città una macchina può accelerare fino ai 50 all’ora guadagna solo qualche secondo rispetto a una che non supera i 30 all’ora, mentre aumenta molto il rischio di incidente. Secondo il Piano Particolareggiato per l’implementazione della Città 30, a cura della società di ingegneria dei trasporti o Polinomia s.r.l., per Bologna si stima un ritardo medio giornaliero di 24 secondi per utente, pari a 12 secondi per tratta.
Nonostante l’incoerenza di fondo, la narrazione del “controllo sociale” a proposito della “Città 30” ha avuto successo, e sta trovando facilmente sponde politiche. Eppure, i sondaggi svolti negli anni ci dicono che “Città 30” e “zone 30” piacciono alla maggior parte dei cittadini, e giova ricordare che fino a oggi nessuna città è tornata sui suoi passi…
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stefano dalla casa – formicablu
Immagine in apertura: by Pete Linforth from Pixabay